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Il giardino suggerisce immagini di pace, tranquillità, dove l’ansia si dovrebbe placare o almeno trovare un equilibrio. E invece i giardini di Granziero sono inquieti, percorsi da una vibrazione segreta, da una domanda che mette in tensione e talora allarma: l’enigma del confine, l’angoscia del fuori. Da Pitigliano alla Maremma, da Bolsena alle montagne, nella Treviso dei Buranelli e della Pescheria, Granziero propone una geografia precisa, territoriale. Granziero ha scelto, per esprimere il suo mondo poetico, lo stile asciutto e disseccato degli haiku, richiamati persino nella struttura tripartita di certe strofe. Un sostantivo, un aggettivo un verbo. Un’espressività che ammalia e tocca corde riposte.
Prima di partire per la sua “isola nativa”, in risposta alle richieste incalzanti della gente di Orfalese, Almustafà pronuncia i suoi discorsi intorno al “segreto più profondo” che avvolge gli uomini e la loro presenza misteriosa sulla terra.
Il Profeta esce nel 1923 e procura subito vasta fama all’autore, facendolo conoscere in tutto il mondo attraverso numerose traduzioni. È il libro che più felicemente compendia le diverse anime di Gibran, fuse alla luce di quel cristianesimo di matrice maronita che sintetizza le diverse istanze culturali, orientali e occidentali, dell’autore e che fa convivere, in una sorta di eresia liberatoria, ortodossia ed eterodossia, monoteismo e panteismo. Un canto profetico nel quale, accanto alle verità della tradizione evangelica, trovano spazio credenze d’altra provenienza religiosa (islamismo, buddismo, induismo).
“Voci di Confine” propone, nelle intenzioni dell’autore, una trama ai confini della coscienza tra il nulla, il niente, l’abisso, l’infinito, l’assenza, la vacuità e la morte come ultimo inevitabile sconosciuto inestricabile traguardo. Lo sfondo di tutto questo è il voler conoscere, la spinta interiore a voler comprendere, la ricerca che non avrà mai fine, e quindi la presa di coscienza dell’insipienza e dell’incomunicabilità di ciò che abita nelle profondità più remote segrete e impronunciabili dell’animo umano.
“Voci di Confine” propone, nelle intenzioni dell’autore, una trama ai confini della coscienza tra il nulla, il niente, l’abisso, l’infinito, l’assenza, la vacuità e la morte come ultimo inevitabile sconosciuto inestricabile traguardo. Lo sfondo di tutto questo è il voler conoscere, la spinta interiore a voler comprendere, la ricerca che non avrà mai fine, e quindi la presa di coscienza dell’insipienza e dell’incomunicabilità di ciò che abita nelle profondità più remote segrete e impronunciabili dell’animo umano.
La chiave di volta di questa intensa poesia esistenziale sono certe oscillazioni debordanti, a segnare le quali intervengono iterazioni e divaricazioni, assonanze ed accordi. Sono le intenzioni a cui corrisponde lo sforzo appunto esistenzialmente ripagato del conoscere se stessi fin dove si possa e si riesca, al di là di tutto e nonostante tutto, perché è l’unica cosa che alla fine conta nella vita. Tale percorso di autoconoscenza si traduce in una lingua intarsiata, specchio di quella condizione psicologica che continuamente si divarica nel groviglio del pensiero, che è il groviglio stesso dell’esistenza, in cui si agitano tutti i motivi e tutte le occasioni: gli affetti, l’amicizia, la morte, il tempo, la sofferenza, la storia, il mondo.
L’immagine del passato, il riconoscimento d’amore e la ricomposta testimonianza del presente.
Nella poesia di Giuliana Piovesan si intrecciano, tre livelli: l’immagine del passato, il riconoscimento d’amore e la ricomposta testimonianza del presente. E i tre livelli coesistono in un discorso di piena maturità umana ed espressiva che conosce e pratica, accanto all’esperienza della vita il gioco dell’intelligenza e i riferimenti della cultura. La chiave di lettura è il filo onirico: quel tanto di inventività fantastica, di visionarietà che interviene sempre ad animare le situazioni facendole levitare e caratterizzando in aerea leggerezza le presenze di persone e di paesaggi. I luoghi sono sognati o intravisti nella visione piuttosto che effettivamente documentabili, anche se reali. E questo vale anche per le presenze umane, rese diafane e lattiginose da uno schermo che, mentre le vela, nella loro improvvisa luminosità anche le rivela e, in particolare, per forza e suggestione la presenza di un “tu”, sottolineato con partecipazione anche nel disinganno, che attraversa tutta la raccolta.
Il discorso dell’amore copre un percorso noto e ricorrente: la dichiarazione, il disagio, la gelosia, l’incontro, l’attesa, la tenerezza, la passione, l’io-ti-amo, l’esclusiva.
Il discorso dell’amore copre un percorso noto e ricorrente: la dichiarazione, il disagio, la gelosia, l’incontro, l’attesa, la tenerezza, la passione, l’io-ti-amo, l’esclusiva. Ma, proprio perché ci si muove in un territorio usuale, la reinterpretazione del poeta si affida in misura inversamente proporzionale all’originalità della pronuncia oltre che all’incisività espressiva. È appunto il caso di questo canzoniere d’amore di Giovanni Sato dal titolo subito significativo Le metamorfosi del cuore. Con una bravura istintiva, Giovanni Sato riesce a muoversi ardito e arguto in mezzo ai mille trabocchetti dell’eterna vicenda amorosa, riconsegnandone al lettore un attraversamento personale, del tutto inedito, perfino sorprendente e, in ogni caso, inaspettato.
La poesia è il luogo della sospensione, dell’attesa per eccellenza, e quindi è il modo migliore per avvicinarsi a Dio e all’essenza delle cose, anche di quelle più minute. Saper attendere, però, non è facile, occorre apprendere, con la tenacia di uno sguardo limpido: queste poesie ci indicano una via, il lungo tirocinio di una voce che, a sua volta, ha saputo farsi attendere e che ora possiamo apprezzare in tutta la sua intensità.
L’attesa è una freccia che vola e che resta conficcata nel bersaglio: è una delle frasi più belle di Kierkegaard. Ed esprime anche la sensazione che si sperimenta leggendo le poesie di questa raccolta.
È il tempo dell’attesa a segnarne il ritmo: l’attesa della vita che sarà; dell’amore che si anima di presenze costanti e di leggerezze improvvise; dei ricordi più cari preceduti da colori e odori improvvisi; delle immagini curiose che corrono sul finestrino del treno al termine di una giornata di fatica; di un futuro capace di superare ingiustizie e sofferenze; di un bene, in definitiva, piccolo o Grande, che dovrà per forza manifestarsi, per la sola fiducia che come uomini occorre sempre e necessariamente riporvi. Come in uno spontaneo e inesauribile atto di Fede.
“Ogni essere umano …si trova inconsapevolmente di fronte ad una scelta, vivere di ciò che appare cercando di trarne il meglio oppure guardare oltre la superficie, ossia esplorare. Quest’ultima è l’opzione che ho seguito”.
Parusia è un concetto della filosofia platonica: sta ad indicare la presenza della divinità in ogni cosa materiale di cui è fatto il mondo degli uomini. Il riconoscere questa presenza con la fatica, anche con il dolore della ricerca, è il tema di questa raccolta di Gianfranco Jacobellis, capace come pochi di trasferire la dimensione filosofica in limpido pensiero della quotidianità, in una poesia che come ampiamente dimostrato già in passato è dominata da una direttrice intellettuale risolta in chiave lirica. “Cerco la trascendenza (a volte la trovo) in ogni attività umana … come una riva di salvezza”. La ricomposizione delle forze incommensurabili, l’incontro della linearità dell’eterno e della puntiformità del quotidiano, contraddistinguono queste nuove poesie di Jacobellis.
La capacità immaginativa è il motore di questa poesia: un’energia intellettuale, continuamente in movimento, in un vorticoso bestiario di esempi quotidiani…
La capacità immaginativa è il motore di questa poesia: un’energia intellettuale, continuamente in movimento, in un vorticoso bestiario di esempi quotidiani e personali (di clinica in clinica in un paesaggio di flebo e di lenzuola, tra ossessioni e fobie), di memorie e di ricordi (in una terrestre sensualità, le presenze vive delle donne ne sono al massimo grado l’esempio potente).
Anna Achmatova diceva di Pasternak: “un poeta magico, un poeta divino, uno dei grandi poeti della terra russa”. Le Poesie di Živago ripercorrono l’intera vicenda di Jurij, protagonista del romanzo Il dottor Živago, facendo da riassunto per “tappe” del suo percorso esistenziale. Jurij Živago è la trasposizione romanzata, l’alter ego di Pasternak.
Le Poesie di Živago ripercorrono l’intera vicenda di Jurij, protagonista del romanzo Il dottor Živago, facendo da riassunto per “tappe” del suo percorso esistenziale. Jurij Živago è la trasposizione romanzata, l’alter ego di Pasternak. Si fa interprete di quella stessa fragilità dell’individuo e di quella solitudine dell’intellettuale che Pasternak sperimenta nella sua esistenza dentro la violenta morsa della storia del suo paese “stravolto e squartato” dalla guerra e dalla rivoluzione. Si fa portavoce di quella stessa alternativa spiritualistica impregnata di sensibilità cristiana di cui Pasternak è stato testimone coraggioso nella sua vita. Dietro alla sua creatività e all’esercizio del pensiero, Jurij nel romanzo scrive e pubblica poesie proprio come fa lo stesso Pasternak nella vita reale. E Jurij nel romanzo vive lo stesso dissidio del suo autore tra l’artista e la società, tra la poesia e la politica, tra l’arte e la storia, tra l’amore e il matrimonio. Le Poesie di Živago si segnalano per le atmosfere intime e personalissime, prive di qualsiasi accento declamatorio, con cui Pasternak tratta il tema della patria sofferente, e per lo “scintillante mosaico di immagini” attraverso cui parla d’amore, di illusioni e delusioni, di insoddisfazione personale, di ansia religiosa, di ricerca spirituale.
Mandel’štam ha scritto alcune delle poesie più dure nei confronti della “follia sovietica”, sino alla famosa invettiva contro Stalin, una sorta di autocondanna capitale che lo ha portato alla denuncia e all’arresto e a quel calvario di prigione, confino, lager, durato cinque anni fino alla morte.
Mandel’štam ha scritto alcune delle poesie più dure nei confronti della “follia sovietica”, sino alla famosa invettiva contro Stalin, una sorta di autocondanna capitale che lo ha portato alla denuncia e all’arresto e a quel calvario di prigione, confino, lager, durato cinque anni fino alla morte, costretto a vivere degli aiuti degli amici insieme alla moglie Nadežda in mezzo ai lupi e al rumore del suo tempo. In tutta la sua produzione intensamente lirica, per Mandel’štam la parola della poesia doveva per forza avere una valenza integrale per l’istintivo rigetto del luogo comune, dell’immagine inerte, del tono ingessato, della frase fossilizzata. Decisiva era per Mandel’štam la musica della parola, ciò che rende impossibile fino in fondo una traduzione dei suoi versi, ma che stimola Paolo Ruffilli a confrontarsi con la sua poesia tentando comunque di renderne in un’altra lingua le profonde suggestioni. Mandel’štam Osip